CACCIA GROSSA, di Mario Campanini

 

Caccia grossa

Illustrazione di Eugenio Bausola

Era buio fitto, nel bosco. E c’era anche un gran silenzio. La brezza era scemata e così nemmeno le foglie frusciavano più tra i rami degli alberi.

Lui era uscito dal suo nascondiglio all’imbrunire, spinto dalla fame, ma vagava da più di mezz’ora senza aver incontrato alcuna traccia, alcun segnale. Seguiva un percorso conosciuto a memoria, tante erano le volte che aveva battuto quella pista. I passi leggeri non producevano che un lieve strusciare, attutiti dalle foglie fradice e dal muschio che ricopriva abbondante il suolo del bosco.

Il naso a terra tentava di captare anche il più piccolo odore, la più piccola molecola appartenuta ad una potenziale preda. Le orecchie frementi attendevano di registrare il minimo rumore.

Ma quella notte il bosco sembrava privo di vita.

Fece una sosta dietro ad un masso ricoperto di edera, esplorò con circospezione il terreno circostante e… ecco!

Lo spesso strato di foglie alla base del masso conservava, leggera ma inconfondibile, la traccia odorosa del passaggio della preda. L’acquolina gli riempì la bocca e ripetutamente si passò la lingua sul naso e sulle labbra sfiorando, nel movimento, le punte acuminate dei denti. La fame gli strinse ancor di più lo stomaco.

La traccia era stata scovata, ora si trattava di non perderla.

Proseguì, naso a terra, con passo più spedito e man mano che l’invisibile percorso della preda gli si dipanava davanti, più intensamente avvertiva il suo odore.

Ora era certo che non avrebbe più perso quella pista. Annusava ed avanzava, annusava e correva, sempre più svelto, sempre più veloce e…

Si bloccò di colpo. Adesso la udiva. Era lì vicina. Non la vedeva, ma la udiva. Distintamente.

Lentamente si girò verso il punto di provenienza del fruscio. Mosse alcuni passi. Annusò di nuovo, ascoltò, trattenendo il respiro, mentre valutava la distanza. E poi scattò in avanti.

Piombò sulla preda con tutto il corpo, schiacciandola a terra, e la afferrò con le mascelle. Lei fece un disperato tentativo di difesa avvolgendo, con la parte posteriore del proprio corpo, la zampa anteriore di lui e tentò di morderlo sul muso. Ma la contesa era troppo impari. Il secondo morso la raggiunse dietro la testa e fu letale.

Il pasto fu consumato senza esitazione, tanta era la fame. Quando ebbe finito, si ripulì accuratamente il muso e le zampe. Poi fiutò l’aria prima di incamminarsi nuovamente nell’oscurità del bosco, guidato dai sensi e dall’istinto.

Predatore e preda, vita e morte, avevano giocato l’ennesima partita, quella notte. Un riccio aveva incassato la vittoria a spese di un orbettino. Ma non c’era spazio per la vanagloria; la legge della sopravvivenza non dà tregua a nessuno ed il domani avrebbe potuto sovvertire le parti, assegnando al feroce cacciatore il ruolo di vittima designata.

 

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