ANTIOCO, di Mario Campanini

Antioco

Illustrazione di Eugenio Bausola

 

L’avevano chiamato col nome dell’isola dove era nato. Faceva il pastore ed era felice.

La prima volta ci eravamo incontrati all’interno della salina, meraviglioso luogo dove acqua, luce e terra esaltano quel miracolo chiamato vita. Andavo per vedere i fenicotteri e le altre decine e decine di specie di uccelli.

Lui stava in piedi, armeggiando intorno ad una bisaccia. Le pecore pascolavano tutto intorno, brucando la magra vegetazione alofila dei campi che interrompevano la distesa delle vasche di salina.

Avanzando con la bicicletta lungo la pista sabbiosa, la mia attenzione era stata attratta da una serie di girandole infisse sui pali di uno steccato di confine. Erano fatte con la plastica abilmente ritagliata delle bottiglie dell’acqua e giravano in silenzio, mosse dalla brezza.

Sembravano tanti piccoli anemometri trasparenti.

Proseguendo mi ero accorto che mi stava osservando e così mi ero diretto verso di lui. Prima ancora di stringergli la mano ero stato colpito da un intenso profumo di sapone di Marsiglia.

“Buon giorno, mi chiamo Antioco. Lei viene qui per i fenicotteri, vero?”

Semplice, diretto, cordiale.

“Sono i signori di questo luogo. Sono eleganti e discreti. Vanno a dormire nelle lagune più interne, verso Salinas. Ma ogni mattina tornano qui. Arrivano da quella direzione, in lunghe file ordinate. Ed è in quel momento che il sole nascente esalta la loro bellezza, infiammando il loro piumaggio.”

Parlava senza enfasi e senza spunti retorici. Eppure da ogni suo ragionamento trapelava un profondo legame con quella terra.

Dopo di allora ho incontrato Antioco altre volte, lì nella salina, e sempre mi accoglieva con la stessa cordialità e lo stesso profumo di sapone di Marsiglia.

Poco alla volta mi aveva raccontato la sua vita. Figlio di un minatore, anche lui aveva passato lunghi anni a scavare carbone. Finché non ce l’aveva più fatta a passare i suoi giorni sepolto sotto terra come un topo. Aveva provato ad andare per mare, aiutando il fratello pescatore. Ma il mare lo aveva respinto, rivoltandogli lo stomaco ogni volta che saliva sul peschereccio. E allora si era deciso ad investire i suoi risparmi nella pastorizia.

Non era di certo diventato ricco, ma era libero. E felice.

In fondo era quello che aveva sempre desiderato.

Non si era mai sposato ma, sorridendo, diceva di essere felicemente fidanzato.

Un giorno, seduti su due secchi rovesciati, in mezzo alla salicornia, mi aveva spiegato che il problema dell’uomo di oggi è il tempo. O meglio, la sua incapacità di prendersi il tempo necessario per pensare, per vedere, per ascoltare, per “sentire”.

“Ecco, l’uomo di oggi non riesce più a sentire. Comunica col computer, col palmare, col satellite e tutte le altre meraviglie della tecnologia, ma non è più in grado di sentire i messaggi della vita. La natura che gli sta attorno è diventata estranea, muta. E lo è diventata perché è l’uomo stesso che ha chiuso i suoi canali di percezione. Si è chiuso in se stesso, è diventato autistico. Un alieno.

L’uomo è una bestia strana.

Da una parte ha saputo liberarsi dalla sua sostanza bruta, riuscendo addirittura a rappresentare in forma perenne le emozioni. Inventando l’arte.

Dall’altra si è via via involuto a tal punto da rinnegare perfino la sua stessa appartenenza al mondo naturale.”

Mi piaceva ascoltare i suoi discorsi. Sapeva esprimere concetti profondi in maniera semplice e chiara. Era come se mettesse in ordine le mie idee confuse e, alla fine, quello che avevo solo intuito diventava evidente.

Passavo giornate intere nella salina, osservando col binocolo i tuffi ripetuti dei fraticelli intenti a catturare pesciolini oppure seguendo le leggere planate dei falchi di palude a caccia di prede. E, quando era presente, ascoltavo le parole di Antioco.

“Vedi” mi diceva “quest’isola è stata per lungo tempo una colonia fenicia. Gli storici dicono che venivano qui per rifornirsi di materie prime: metalli e altri minerali utili. Ma io penso che arrivavano soprattutto per sete di conoscenza e perché amavano l’avventura.

Credo di aver ereditato un po’ del loro spirito.”

Poco alla volta cominciavo a capire l’immensa ricchezza di Antioco. La sua vita non era un alternarsi affannoso di tempi morti inframmezzati a momenti di frenetica attività.

Era un armonioso e continuo fluire di istanti, tutti intensamente assaporati.

Le pecore, lo stazzo, la salina, le girandole di plastica, le riflessioni, i libri, i pasti frugali, i fenicotteri.

“Vuoi conoscere il segreto della felicità?” mi aveva domandato una volta, mentre guardavamo i colli sinuosi dei fenicotteri immergersi nell’acqua salata, “Fai come loro. Non pretendere dalla vita niente di più di quello che è strettamente necessario.”

Mi regalava pillole di saggezza, Antioco. Avvolte in una delicata fragranza di sapone di Marsiglia.

 

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