LA DANZA DELL’APE, di Mario Campanini

La danza dell'ape

Illustrazione di Eugenio Bausola

Eravamo in tante, ma proprio tante in quel campo di trifoglio fiorito. Volavamo da un fiore all’altro lambendo fino all’ultima stilla di quel dolcissimo nettare. Tutto l’alveare si era mobilitato quando un’esploratrice aveva danzato comunicando alla comunità la scoperta di quel prato ricco di fiori e di profumi.

Il sole intiepidiva l’aria e ci aveva guidate sull’obbiettivo seguendo le coordinate impartite dall’esploratrice.

La giornata prometteva un ricco bottino e l’andirivieni delle bottinatrici da e verso l’arnia era incessante.

Non so chi di noi avesse intuito il pericolo, so soltanto che al mio quarto ritorno all’alveare, carica di nettare e polline, avevo trovato tutta la comunità in allarme. L’aria era satura di feromoni che incitavano alla lotta e due di noi danzavano segnalando una minaccia mortale: calabroni in avvicinamento.

Schiere di soldati pronti all’attacco erano già allineati sulla soglia ed un nugolo di bottinatrici eccitate ronzavano davanti all’arnia. Nel breve lasso di tempo necessario ad alleggerirmi del mio carico, mi sono resa conto che là fuori la battaglia era cominciata.

Mi sono precipitata sulla soglia d’ingresso, dove già agonizzavano alcune mie compagne, trafitte dagli aculei di quei diavoli o dilaniate dalle loro formidabili mandibole. Un paio di calabroni lottavano in un corpo a corpo contro almeno dieci nostri soldati. I calabroni sono molto più grandi e forti di noi api, ma dalla nostra gioca a favore il numero e la tenacia. Non ci facciamo intimidire nemmeno da quei mostri e lottiamo fino allo stremo delle forze.

Non ricordo quanti fossero gli aggressori, ma ho ben presente la rapidità di uno di loro nell’attaccare alle spalle uno dei nostri soldati, schiacciarlo contro il margine della soglia e trafiggerlo con lo stiletto proprio all’attaccatura dell’addome. E’ stato in quel momento che mi sono lanciata all’attacco e mentre lui ancora trafiggeva la mia povera compagna mi sono aggrappata ad una delle sue ali e, ripiegando il mio addome sotto di lui, ho cominciato a colpirlo col mio aculeo. La sua corazza era durissima ma io non mi sono fermata fino a quando ho sentito una parte molle e lì, proprio lì, ho affondato il pungiglione scaricando tutto il mio veleno.

Il calabrone ha avuto un fremito. Con un sussulto mi ha scaraventato lontano, ma non è riuscito a ripartire in volo. Ho visto bene il suo addome tremare e, dopo, è rotolato giù di sotto, mentre altre api lo attaccavano nuovamente.

Non so perché, ma anch’io non sono più riuscita a prendere il volo. Di colpo mi sono sentita priva di forze e sono rimasta lì, sulla soglia, insieme a decine di altre api nelle mie stesse condizioni. Adesso il mio corpo non obbedisce più alla mia volontà, il respiro è affannoso e credo proprio di essere prossima alla fine ma, credetemi, sono comunque soddisfatta. L’attacco è stato respinto, anche se ad un prezzo molto alto. Vedo alcune mie compagne danzare per segnalare il cessato allarme e nell’aria si respira nuovamente il profumo della pace e dell’armonia.

Mi spiace soltanto di non poter danzare insieme a loro. Tuttavia, pensateci bene: non intravedete un segno d’immortalità quando il nostro sacrificio serve a dare continuità a qualcosa o qualcuno che si ama e in cui si crede? In quel sogno realizzato ci sarò anch’io.

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