ESTATE 1943, di Mario Campanini

Estate 1943

Illustrazione di Eugenio Bausola

L’estate del 1943 si era annunciata in modo un po’ turbolento. Come se non bastasse la tragedia della guerra, era sopraggiunta una serie di forti temporali che avevano in parte danneggiato i raccolti e procurato non pochi problemi alle cascine della pianura lombarda.

Gli uomini erano al fronte e una schiera di sbandati si nascondeva nelle campagne in condizioni al limite della sopravvivenza.

Sotto il ponte del Cavo Montini, un importante canale irriguo che tagliava la campagna bordato da alberi e cespugli, avevano trovato rifugio due soldati. Erano stranieri ed erano giovani.

Durante l’ultima incursione aerea, il loro aeroplano era stato colpito dalla contraerea e loro erano stati costretti a lanciarsi col paracadute. Erano giunti a terra ben lontano dal punto di lancio e, in un primo momento, i due avevano perso i contatti tra di loro. Per fortuna erano riusciti a ritrovarsi, ma ora si trovavano sperduti, in territorio nemico e, per giunta, sconosciuto.

Il primo istinto era stato quello di nascondersi e, dopo due giorni passati in un boschetto, avevano trovato riparo sotto quel ponte. Il posto si prestava a fungere da improvvisato rifugio: sotto l’arcata il canale era fiancheggiato da un greto di ciottoli e ghiaia e ai lati del ponte crescevano degli ontani rigogliosi che ombreggiavano e occultavano la luce dell’arcata.

Lì sotto avevano portato frasche ed erba secca per formare una sorta di giaciglio e così la tana, considerata la loro condizione di bestie braccate, era stata approntata. L’acqua non mancava, ma rimaneva da risolvere il problema della fame.

Anna, sei figli più un marito molto più anziano di lei, viveva in una cascina i cui campi venivano irrigati tramite le diramazioni del Cavo Montini.

Era piccola di statura, ma forte come una quercia e dotata di un coraggio da leone.

Stava tornando dal mercato con la bicicletta quando aveva notato da dietro il parapetto del ponte un gesto di saluto o di richiesta di aiuto. La ragione le suggeriva di tirare diritto il più velocemente possibile, ma istintivamente qualcosa la tratteneva e, rallentando, aveva visto un viso giovane e due occhi imploranti.

Si era fermata e il giovane, con la barba lunga di alcuni giorni, aveva cominciato a dirle delle parole incomprensibili, congiungendo le mani in segno di supplica. Lei scuoteva la testa per dire che non capiva, ma lui insisteva facendo altri gesti e portando le mani alla bocca. Aveva fame!

Subito dopo Anna si era accorta che il giovane non era solo, ce n’era un altro, più o meno della stessa età e tutti e due portavano una divisa. Con un rapido movimento della testa Anna si era guardata attorno e poi aveva infilato una mano nella sporta estraendone due pagnotte per consegnarle furtivamente al giovane. Ed era filata via senza dire una parola.

Per tutto il giorno il pensiero di quei due giovani si era infilato continuamente tra le varie preoccupazioni quotidiane. Il lavoro nei campi, le bestie nella stalla, accudire sei figli più il marito, la miseria, i pericoli della guerra.

Ce n’era abbastanza per dimenticare l’accaduto e dedicarsi esclusivamente ai problemi della sua famiglia.

Ma non ci riusciva.

Due ragazzi, poco più grandi dei suoi figli, le chiedevano aiuto e rischiavano di morire. Lei era madre ed il suo cuore non le avrebbe mai permesso di ignorarli.

Era terribilmente pericoloso però. Così aveva deciso di non dire niente in casa, nemmeno al marito, per ridurre al minimo la possibilità che potesse scappare una parola di troppo o un gesto sospetto. In qualche modo avrebbe trovato la maniera di portare ogni giorno, ai ragazzi del ponte, qualcosa da mangiare.

La sera successiva i due giovani erano intenti a cercare di fiocinare dei pesci che nuotavano sotto il ponte. Avevano preso dei rami ai quali avevano intagliato un’estremità, creando una specie di arpione. Con quegli arnesi erano più di due ore che cercavano di catturare una preda, ma invano.

All’improvviso avevano avvertito un leggero fischio e si erano immobilizzati. Qualcuno si avvicinava attraverso la vegetazione della riva. Avevano puntato le armi quando una voce di donna dal tono sommesso aveva illuminato di speranza i loro volti.

Anna, con il viso tirato dalla tensione, era comparsa tra gli ontani. Stringeva tra le mani un cestino dal quale aveva estratto un panno annodato e un pentolino stagnato, appoggiandoli per terra davanti ai giovani. Con un sorriso colmo di pena si era portata il dito davanti alla bocca, raccomandando il silenzio. Prima di tornare da dove era venuta, Anna aveva fatto in tempo a comprendere una parola, tra le tante mormorate dai giovani, che l’aveva gratificata più di mille ringraziamenti. Uno dei due aveva detto “Mama”.

Da quel giorno, regolarmente, Anna aveva fatto visita al rifugio del ponte, portando con sé del cibo per i ragazzi. Cercava di cambiare, per quanto possibile, il percorso di avvicinamento e l’ora delle sue sortite, per non destare sospetti, tuttavia gli incontri erano sempre carichi di paura. Anna non temeva tanto per sé, quanto per i ragazzi e per le possibili conseguenze sulla sua famiglia. Ma il richiamo del suo cuore di madre era più forte di tutto.

Un paio di volte era stata costretta a vagare per la campagna ed a ritardare il rifornimento di cibo perché aveva notato la presenza di una motocicletta della milizia che si aggirava lungo le strade sterrate.

Anche quando intravedeva in lontananza qualche civile intento ai fatti suoi elevava al massimo il livello di prudenza, fingendo di dedicarsi a qualche lavoro nei campi fintantoché non acquistava l’assoluta certezza di non essere notata.

Intanto la vita dei due giovani nella tana sotto il ponte scorreva in un alternarsi di noia, paura, piani di fuga verso la salvezza e visite di quella piccola donna che li stava trattando come fossero figli suoi.

Un giorno, in un momento di tranquillità, distesi nel loro giaciglio di fortuna, avevano notato sotto l’arcata del ponte, dall’altra parte del cavo Montini, la presenza di un nido abitato da una manciata di pulcini. Il nido era stato costruito al centro della piccola cengia costituita dallo sbalzo del pilone in sasso sul quale poggiava la volta in mattoni.

Era un nido di ballerina bianca.

Da quel momento avevano cominciato a seguire con sereno divertimento l’affaccendarsi dei due genitori intenti a tirar su la prole e avevano notato la tenacia, il coraggio, la fatica e l’impegno che i due uccellini ci mettevano per portare a termine l’impresa.

Spesso erano stati sopraffatti dalla nostalgia nell’accostare quel piccolo nido alle loro case lontane. Il ricordo della famiglia diventava in quelle occasioni così intenso da procurare una sorta di dolore fisico.

Le ballerine, dal canto loro, non mostravano più nessuna paura dei due rifugiati sotto il ponte, forse anche per il fatto che in più di un’occasione i ragazzi avevano catturato sul fondo del cavo dei piccoli vermi rossi che avevano gettato sulla riva opposta, dove i due uccellini si erano precipitati a raccoglierli per imbeccare quelle cinque bocche fameliche perennemente spalancate.

A qualche chilometro dal ponte sul cavo Montini, al margine dello stradone sterrato che portava in paese, sorgeva una chiesetta dedicata alla Madonnina del Carmine. La chiesetta disponeva di un piccolo sagrato in acciottolato delimitato da alti tigli e paracarri in sasso. Sul lato era stata costruita una sacrestia dotata di un piccolo alloggio.

Qui viveva una donna, nubile, che di nome faceva Faustina, ma era conosciuta da tutti come la “Lodola”, perché non c’era segreto che lei non riuscisse a scoprire per poi riportarlo a chi di dovere. S’impicciava di tutto e sparlava di tutti e, con l’avvento della guerra, questa sua malvagia propensione era diventata anche una fonte di guadagno.

S’informava, riferiva, incassava.

Viveva nelle due stanze annesse alla chiesetta perché svolgeva il ruolo di perpetua aggiunta ed il parroco la trovava sempre disponibile per le varie incombenze dell’ufficio sacerdotale. Per questo, forse, chiudeva un occhio, o tutti e due, sugli aspetti poco cristiani del suo comportamento.

Un giorno la Lodola aveva appena oltrepassato il ponte sul cavo Montini, quando aveva notato sulla superficie della corrente delle macchie di schiuma. Fermata la bicicletta, si era accostata al parapetto per osservare meglio quelle bolle biancastre: sembrava proprio schiuma di sapone. A monte del ponte non ve n’era traccia.

Era ancora assorta nei suoi pensieri quando da sotto il ponte si era involato un uccellino bianco e nero, dal volo ondeggiante, che strillava allarmato. La Lodola era risalita in sella e si era allontanata in direzione dello stradone.

Due giorni dopo, era domenica, Anna, dopo aver finito di governare insieme al marito le bestie nella stalla, si era cambiata e si era recata alla prima messa del mattino. Al ritorno si era dedicata alle faccende domestiche e si era fatta aiutare dalla più grande delle figlie per riannodare le lunghe trecce delle altre due sorelline, mentre la più piccola, di soli due anni, sgambettava per la cucina. I due ragazzi erano già fuori, intenti nelle loro scorribande per i campi. Al termine, fatte le solite raccomandazioni alle bambine, aveva raccolto qualcosa dalla dispensa ed era uscita per raggiungere il marito in campagna.

Naturalmente, come sempre, aveva fatto una deviazione che l’avrebbe condotta al ponte del cavo Montini.

Con la solita circospezione si era avvicinata attraverso la folta vegetazione della riva, aveva fatto il segnale convenuto e si era incontrata con i due giovani soldati sbandati, consegnando loro l’involto contenente due uova sode, del formaggio, del pane, un pezzetto di burro e delle pesche.

I due ragazzi avevano i capelli arruffati e la barba lunga, ma i loro occhi erano colmi di gratitudine mentre continuavano a ripetere parole incomprensibili ma comprensibilissime dal cuore di Anna.

Lei aveva sorriso con gli occhi pieni di angoscia e, prima di sparire, aveva dato una carezza a ciascuno dei due.

Nel pomeriggio, mentre giacevano assopiti nei loro giacigli sotto il ponte, uno strepito improvviso li aveva destati di soprassalto. Le due ballerine adulte volavano in tondo sulla superficie dell’acqua appena oltre il ponte, strillando come impazzite. Nell’acqua si dibatteva uno dei giovani della covata, che aveva tentato la sorte del primo volo senza successo. Uno dei due giovani soldati, agendo d’impulso, senza neanche togliersi la divisa era entrato in acqua raggiungendo il pulcino in procinto di annegare. L’aveva raccolto e depositato al sole sulla sponda opposta per farlo asciugare, una decina di metri a valle del ponte.

Riguadagnato il rifugio, si era poi tolto gli abiti bagnati appendendoli a dei rami di ontano e aveva approfittato del bagno imprevisto per darsi una lavata con il pezzo di sapone che Anna aveva portato loro qualche giorno addietro.

Una cinquantina di metri più in giù, ben nascosta sulla ripa tra le frasche di un sambuco, la Lodola aveva assistito al salvataggio dell’uccellino.

Due giorni dopo in paese c’era mercato. Anna, in bicicletta, con la sporta e la tessera del razionamento, aveva raggiunto lo stradone di buon’ora ed era arrivata in paese di primo mattino. C’era uno strano fermento quel giorno ed il mercato sembrava più agitato del solito. Gruppi di persone, per lo più anziani e donne, discutevano animatamente. Anna, con la bicicletta per mano, improvvisamente si era bloccata, colpita da due parole udite casualmente: “catturati” e “fucilati”. Un’onda di gelo iniziava a correrle per la schiena.

Fingendo indifferenza si era avvicinata ad un crocchio dove un uomo parlava ad alta voce e lì aveva avuto conferma della tragedia che in cuor suo pregava non dovesse capitare mai. Il pomeriggio del giorno prima due soldati nemici erano stati catturati sotto il ponte del cavo Montini, erano già stati interrogati al comando della milizia e l’indomani sarebbero stati fucilati come spie al muraglione della strada alzaia presso la cascina Volpina.

Anna, con gli occhi velati di lacrime, vagava per il mercato come una sonnambula. Vedeva figure, percepiva suoni, ma non li trasformava in messaggi reali e comprensibili. Finché un pensiero, fulmineo e freddo come una lama, l’aveva risvegliata: “Oddio, avranno scoperto anche me? O Signore, i miei figli, la mia famiglia…”

Al momento non c’era risposta e così aveva inforcato la bicicletta per volare a casa… sfogarsi… proteggere i suoi bambini… avvertire suo marito del pericolo…

Avrebbe voluto passare anche dalla strada del ponte, per vedere o capire… non sapeva nemmeno lei cosa. Ma era troppo pericoloso, magari erano già sulle sue tracce. E così aveva proseguito lungo lo stradone, ma quella scelta prudente la faceva star male: era come se anche lei, così facendo, li abbandonasse o li tradisse, quei ragazzi!

Anna era sconvolta e per tutto il giorno aveva pianto tutte le lacrime che aveva. Nella notte non era riuscita a chiudere occhio ed il marito, al quale aveva raccontato tutto, non riusciva a consolarla.

“Domani li avrebbero ammazzati. Ed era come se l’avessero fatto a due figli suoi”.

Il giorno dopo, la fucilazione aveva avuto luogo alle sette in punto. Presenti, oltre al plotone di esecuzione, le autorità politiche e militari del capoluogo ed un manipolo di curiosi, tra cui la Lodola.

Nelle settimane successive, la paura di Anna di essere stata scoperta si era a poco a poco dissolta. Ma non il dolore per la morte di quei ragazzi. Anna provava ancora forte l’impulso di tornare al ponte, come se dovesse cercare una testimonianza o un segno del destino. E così, con il cuore in subbuglio, un giorno aveva ripercorso la riva del cavo Montini ed era sbucata tra gli ontani alla base del ponte. Con esitazione e le mani tremanti si era guardata in giro. C’erano ancora i resti dei giacigli e una mostrina brillava tra i sassi del greto. Poco più in là, una gavetta ammaccata. Nient’altro.

Prima di tornare sui suoi passi, Anna aveva sollevato lo sguardo notando una scritta sulla spalletta in pietra del ponte. Probabilmente era stata tracciata con un coccio di mattone, perché era rossa. Erano parole incomprensibili, vergate in una lingua straniera eppure, man mano che i suoi occhi colmi di lacrime seguivano quei segni, il cuore di Anna accelerava i suoi battiti, come se percepisse il loro messaggio.

Sulla pietra stava scritto: “Oh wagtail, do it for us and fly to our home”. E più in basso: “Thank you, Mama”.

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