NEDELEG LAOUEN HOLL, di Fabrizio Burlone

Nedeleg Laouen Holl copiaIllustrazione di Eugenio Bausola

L’Apprendista avanzava con cautela. La ragazza dietro di lui non la smetteva un attimo di lamentarsi, ma questo non costituiva certo ragione sufficiente per affrettarsi. Non pioveva più da parecchie ore, anzi, uno spicchio di luna si era perfino affacciato da dietro alle nuvole e qua e là erano addirittura apparse le prime stelle. Incerte, titubanti. E poi erano scomparse, quasi avessero avuto altri programmi per quella fredda notte di Natale. Lo stesso vento che spazzava il cielo scuoteva anche i rami degli alberi, gettando tutto intorno gli ultimi residui della pioggia che aveva inzuppato tutta la Bretagna nel pomeriggio. Il sentiero si vedeva appena, e un po’ di cautela era più che un obbligo. Non aveva certo intenzione di mettere un piede in fallo per poi doversi presentare al padrone tutto lacero ed inzaccherato, perdiana.

“Uffa, ma manca ancora molto?” erano usciti da Paimpont che stava appena spiovendo, e ormai stavano camminando da quelle che sembravano ore. Al buio, al freddo ed in mezzo ad un’accidenti di foresta.

“Ti avevo detto di non venire.”

“Eh no, bello mio. Non provarci nemmeno. E poi, Papà già non ti vede di buon occhio e se venisse a scoprire che mi hai lasciato a casa proprio questa notte per una di quelle tue cose da miscredente o, peggio ancora, da pagano, addio matrimonio.”

“Già, e se invece sapesse che sto portando sua figlia a spasso nei boschi in piena notte, chissà come sarebbe contento.”

La ragazza si fermò di colpo, squadrando l’Apprendista dal basso in alto come se lo stesse facendo dall’alto in basso. “Jacques Cartier”  sbottò, “ma se pensi che sia così stupida, perchè ti sei messo con me?”

L’altro soppesò un paio di risposte, poi decise di non affrontare la questione in quei termini. “Mi chiedevo, in effetti, che cosa tu gli avessi dovuto raccontare per ottenere il permesso di uscire a quest’ora.”

“Gli ho detto che andavamo alla messa di mezzanotte a Rennes, perché tu sei un buon amico del Vescovo e lui ci teneva ad averti lì per la celebrazione”.

Jacques sbiancò visibilmente, anche sotto la pallida luce della luna. “A Rennes? Santo cielo, e come pensa che ci arriviamo? Volando? Per andare a messa con il Vescovo, poi!”

“Sì in effetti mi è sembrato un po’ perplesso quando gliene ho parlato. Ma papà non ha mai viaggiato molto, e comunque mi sembrava una bella storia.  Al massimo gli dirò che mi hai mentito, tu intanto incomincia a pensarci su. Ci muoviamo? Si gela, qui.”

Detto questo ripartì di gran carriera, lasciandosi la guida ad arrancare alle spalle. Dopo un’altra decina di minuti la foresta si interruppe piuttosto bruscamente, cedendo spazio ad un placido laghetto. Sulla sponda di fronte sorgeva un cupo maniero, una malinconica fortezza che anche a quell’ora ed in quella notte mostrava segni di attività militaresche ben poco rassicuranti. Dalle acque antistanti si alzava una leggera bruma che si fermava a galleggiare, senza fretta, appena sopra alla superficie.

“E’.. E’ questo il lago?” domandò la ragazza con voce un tantino incerta..

“Proprio questo..” confermò l’Apprendista..

“E lei c’è?”

“Sicuramente. E’ il ‘suo’ lago. Ma non fare conto di riuscire a scorgerla, però. Sono tanti anni che non si fa più vedere. Tanti, veramente. Più di quanti un uomo riesca a ricordare..”

“E’ triste, non credi?”

“Sì, forse sì. Ma oggi è un giorno di speranza, non di tristezza. E la Dama del Lago non ha mai abbandonato Brocéliande: prima o poi qualcuno la incontrerà nuovamente. Proseguiamo, ora. Il tempo non si fermerà certo a rimirare il lago. O forse lo farà, ma lui ha tutto il tempo che vuole. Noi no.”

Costeggiarono il lago per un breve tratto, tornando ad inoltrarsi nella foresta subito dopo. Jacques conosceva bene quei sentieri, eppure con quella luce incerta tutto quanto sembrava più indefinito, impreciso e di gran lunga più inquietante.

“Non stiamo andando verso la Tomba, vero?” domandò lei, dopo un altro tratto di cammino.

“No, Lui non è lì. Ma manca poco, ormai: guarda, c’è la nostra guida.”

Proprio di fronte a loro, in attesa sul ramo più basso di un grande faggio, un pallido uccello notturno li stava osservando..

“Un gufo bianco!” esclamò la ragazza, emozionata.

“Un barbagianni, per l’esattezza.” Il volatile, che anche alla scarsa luce della luna risultava piuttosto evidente, li stava scrutando con due piccoli occhi neri che sembravano due bottoni di puro inchiostro cuciti nel bianco candido del capoccione. Candido era anche il piumaggio del ventre, che scendeva giù giù fino a formare un autentico paio di calzoni che coprivano le zampe. Sembrava più un giocattolo che un uccello. Improvvisamente aprì le ali, gettandosi nella notte come un fantasma, e non fu più così facile da vedere.

“Non perderlo di vista! andiamo!”

I ragazzi si gettarono all’inseguimento di gran carriera. Il Barbagianni volava di albero in albero senza mai allontanarsi troppo dai due, e quando per caso o per necessità finiva per prendere troppo vantaggio si fermava immancabilmente ad aspettarli.

“Mi fa impressione quando gira la testa così!” dichiarò la ragazza in un momento in cui si erano fermati a riprendere fiato “Ma guardalo, riesce a voltarla fin dietro alle spalle, sembra che gliel’abbiano messa su all’incontrario! Ma come fa?”

“E’ complicato” rispose l’Apprendista. Cacciò fuori dalla tasca un piccolo taccuino e disegnò rapidamente uno schema, puntando con la matita. “Hanno delle articolazioni adatte allo scopo qui e qui. In più, l’arteria vertebrale si inserisce qui, in un punto più alto rispetto ad altri uccelli ed è vascolarizzata in maniera differente, in modo che se anche dovesse chiudersi durante la rotazione il flusso di sangue resterebbe … Ma che c’è.”

“Mi sto annoiando” rispose lei fingendo di mettergli il broncio..

“E’ una specie di magia..” concluse lui, chiudendo il taccuino e facendolo sparire nella borsa.

“Ecco, così va molto meglio. Vedi che se fai attenzione ci arrivi? Continuiamo, dai, che ci sta aspettando..”

I due proseguirono l’inseguimento, guidati dal piccolo rapace notturno che si muoveva con sicurezza nella semi oscurità della foresta.

“Non fa il minimo rumore, neanche quando sbatte le ali.” constatò la ragazza.

“E’ per come sono fatte le sue piume, hanno delle specie di frangette che rompono l’aria e attutiscono i suoni. E poi..” il ragazzo si interruppe, colto da un’intuizione improvvisa. “E’ una specie di magia.”

“Bravo! Lo sapevo che ce la potevi fare..”

Pochi minuti dopo il Barbagianni si posò sul ramo di una grossa quercia senza dar segno di voler andare oltre.

“Siamo arrivati” dichiarò l’Apprendista.

Era un angolo particolarmente suggestivo della foresta, quello. Perfino la luna si era sporta ad ammirarlo e adesso lo illuminava con una certa intensità. L’albero su cui la loro guida si era appollaiata si trovava al centro esatto della radura, e poco più in là un gruppo di rocce circondava quella che doveva essere la fontana più cristallina di tutta Brocéliande. Il vento che agitava freneticamente le cime degli alberi lì si trasformava in una leggera brezza che portava già i profumi della primavera che sarebbe arrivata solo tra parecchi mesi.

“Cosa facciamo adesso?”

“Aspettiamo.”

Da lontano, forse proprio da Paimpont, arrivava distinto il suono delle campane che annunciavano il sopraggiungere della mezzanotte.

“Guarda, adesso..”

“Guarda cosa?”

“L’albero. Guarda.”

Alla luce della luna, la porzione di tronco che si trovava proprio davanti a loro sembrava scintillare di cento, mille, un milione di stelle. Stelle agitate, stelle inquiete, stelle che si muovevano convergendo rapidamente verso un punto centrale che diventava sempre più esteso, sempre più brillante. Poi, improvvisamente, il nucleo luminoso si staccò dalla superficie che lo aveva ospitato allargandosi e prendendo sempre più forma e consistenza. Ci fu una specie di lampo accecante, e poi le luci svanirono lasciando al loro posto una figura umana: un vecchio, con una lunga barba bianca e folti capelli dello stesso colore.

L’Apprendista corse a sorreggerlo, perché la trasformazione sembrava averlo lasciato un tantino malfermo sulle gambe.

“Buon Natale, Maestro” lo salutò.

“Buon Natale anche a te, Jacques” rispose l’altro. “E lei chi è?” domandò, notando la ragazza che si stava avvicinando con una certa titubanza, porgendogli una veste.

“Lei è Madenn, la mia fidanzata.. Ci teneva tanto a conoscervi, Maestro.”

L’uomo, che era rimasto nudo come un pollo in padella fin da quando era comparso dal nulla, afferrò gli abiti per esaminarli con una certa perplessità.

“Queste non sono le mie vesti.”

“No, Maestro” rispose Madenn. “Sono abiti nuovi, gli altri erano così vecchi e logori…”

“Anche io sono vecchio e logoro mia cara, quindi restituiscimi pure quelli.”

“Ecco, potrebbe esserci qualche difficoltà, Maestro.”

“Che difficoltà, mia cara?”

“Li abbiamo bruciati!” intervenne bruscamente l’Apprendista. “Scusate, ma il tempo è quel che è e girarci intorno non serve a nulla. Comunque non è stata un’idea mia.”

“BRUCIATI?!! Erano gli abiti del mio ordine, perdiana! E mi portate in cambio questo coso rosso con i bordi bianchi che sembra un costume da giullare?”

“Non è un costume!” Ribatté la ragazza piuttosto piccata.

“E cosa sarebbe mai, di grazia?”

“E’ una Dalmatica. Era la Veste degli imperatori Bizantini. L’ho modificata sui fianchi per far risaltare il punto vita ed evidenziare le spalle, poi l’ho foderata internamente per renderla più calda. I risvolti bianchi le danno un aspetto più informale. Pensavo che la si potrebbe anche accorciare e portare con una cintura piuttosto spessa e dei pantaloni in tono per ottenere un aspetto più signorile. Ci vorrebbero poi degli stivali scuri, i calzari sono troppo freddi per questa stagione le babbucce proprio non ce le vedo con il corto, e un cappello floscio, sempre a punta se proprio le piace, ma morbido. Magari con una decorazione in tono con i risvolti, per via del..”

Madenn si interruppe, notando finalmente l’espressione vacua che si era dipinta sul volto dei due uomini. “Le starà benissimo” sentenziò. “E una specie di magia”.

“E poi di pronto abbiamo solo questo” aggiunse Jacques sottovoce, riprendendosi dallo stordimento.

“Allora la indosserò, ragazza” decise il vecchio, rivolgendole un ampio sorriso. “Ma non finisce qui”, concluse all’indirizzo dell’Apprendista. All’atto pratico l’abito si rivelò per essere una ricca tunica finemente ricamata, calda, comoda e di un certo effetto. Un po’ troppo vivace, volendo, ma in fondo in fondo non gli dispiaceva affatto. E poi aveva altro a cui pensare, adesso. “Andiamo, ora. Ci sono mille cose da fare, e la notte è breve.” Detto questo batté le mani al di sopra della testa, l’aria vibrò tutto intorno a loro e i tre si ritrovarono da un’altra parte.

 

Era una radura di vaste proporzioni. La grande foresta non c’era più, anche se lontananza si riuscivano a distinguere alcuni piccoli, sparuti boschetti. Niente che valesse la pena di menzionare. Quello che invece colpiva era lo straordinario numero di massi e macigni che affollavano quasi tutti gli spazi aperti, sistemati a distanze ed in posizioni regolari. Erano centinaia, migliaia probabilmente. Piccoli come bambini o grandi come giganti, se ne stavano tutti lì, in riga ed in colonna, in attesa.

“Ma dove siamo? E come siamo arrivati fin qui?” domandò la ragazza, più che un tantino spaventata.

“Il come non ha importanza. Per quanto riguarda il ‘dove’, siamo a Carnac, ai campi antichi.”

“E tutte quelle pietre lì in piedi?”

“Ci stanno da prima che gli uomini incominciassero a contare il tempo, nessuno sa perché. Tranne il maestro, ovviamente. Beh, anche io, in parte. E tra un po’ anche tu, ma forse non c’entra niente.”

“Che vuoi dire?”

“Adesso vedrai.”

Il vecchio si era portato al centro di uno dei cerchi megalitici più grandi, e stava cantilenando qualcosa in una lingua che in parte assomigliava al loro brezhoneg, e in parte no.

“Ma cosa sta facendo?”

“Il suo mestiere. Si dice che questi massi altro non siano che i legionari romani che inseguivano San Cornelio.”

“E allora?”

“Beh, parecchi non lo sono.”

Piano piano le rocce più piccole stavano cambiando di forma. Mettevano le gambe, le braccia ed in ultimo anche la testa. Un testone enorme, orripilante, con due orecchie sconfinate piantate sui lati e capelli lunghissimi che scendevano fin oltre le spalle. Avrebbero potuto assomigliare a dei vecchi nani rinsecchiti, non fossero stati cinquanta volte più brutti e sgraziati in proporzione.

“I Korrigans!” esclamò Madenn. “Scappiamo!!”

“No, no, tranquilla! Questi sono buoni.”

“Buoni? Cosa vuol dire?”

“E’ per via del sortilegio che li ha trasformati in pietra: può essere infranto solo con mille anni di buone azioni.”

“Ah! E loro le stanno facendo?”

“Ci stanno provando. Ma visto che possono tornare in vita solo di tanto in tanto, quando qualche potente mago li chiama al suo servizio di solito, sono ancora piuttosto indietro con il lavoro.”

Intanto i folletti si erano goffamente radunati in uno dei campi sgombri, riallineati in una nuova e più chiassosa attesa.

“Ma sono proprio orribili.”

“A dir poco, mia cara” intervenne il Maestro, che intanto era ritornato. “Ma per fortuna per quello che dobbiamo fare non ha importanza. Siete pronti?”

“Pronti? Per cosa?”

In quel preciso momento il Maestro battè nuovamente le mani al di sopra della testa, l’aria tremò ed il paesaggio cambiò un’altra volta.

 

Il vento era più forte adesso, e faceva più freddo. L’aria era satura dei profumi del mare, che non doveva essere molto lontano.

“Sì ma non viene da lì.”

“Come?”

“L’odore. Non viene dal mare. Viene da lui” affermò Madenn. “Ed è anche tutto bagnato.” La ragazza posò l’indice sul macigno, poi se lo portò alla lingua. “Salato.”

Il “lui” in questione era un singolo menhir di dieci o dodici metri di altezza che torreggiava proprio davanti a loro, al centro impreciso di una larga radura. I Korrigans si erano spostati con loro e attendevano ancora, sempre tumultuosamente ordinati in file e colonne.

“Ah, quello” intervenne il vecchio. “E’ che durante i rintocchi di mezzanotte lui va fare il bagno nell’Oceano. Poi torna qua.”

“State scherzando vero?”

“Niente affatto. Lo fa tutti gli anni, a Natale. E’ una fissazione. Un tempo la gente faceva la posta qui attorno sperando di poter approfittare della sua assenza per entrare nella grotta che custodisce e rubarne i tesori. Ma ovviamente non è così semplice e di fatto nessuno ci è mai riuscito.”

“Ma la grotta c’è?”

“Naturalmente” affermò Jacques. “Siamo qui proprio per questo. E adesso, visto che siamo vecchi amici, il nostro bagnante si farà da parte e ci farà passare.” Detto fatto, il ragazzo spinse gentilmente di lato il menhir, che si spostò con facilità liberando una specie di tunnel in ripida discesa e una scalinata che non erano finora rimasti celati dal suo stesso volume.

“Dai , scendiamo”.

Sottoterra li attendeva un ampio laboratorio, rischiarato a giorno da centinaia di globi di luce piazzati più o meno in ogni dove. I banconi erano zeppi di scatole aperte, scatole semichiuse, lavori finiti e appena incominciati come se l’attività che si doveva essere svolta nel posto fosse stata frenetica fino all’ultimo per poi interrompersi di colpo, senza preavviso. I Korrigans sciamarono all’interno, piazzandosi rapidamente alle postazioni che già sapevano di dover occupare e presero a lavorare di gran lena. C’era chi costruiva, chi assemblava, chi verniciava e chi impacchettava. In un attimo il cumulo dei colli completati al fondo dell’officina diventò importante, promettendo di diventare ingombrante in breve ed ingovernabile in poco di più.

“Quindi è qui che realizzate i regali.”

“Proprio così, mia cara” rispose il Maestro, con più di una punta di orgoglio nella voce. “Ed è proprio una bella fabbrichetta, lasciami dire. Tutto ottimizzato, tempi e metodi. Qui gestiamo le lettere dei bambini,” indicò una grossa cesta traboccante di buste che alcuni Korrigans pescavano, annusavano e poi smistavano in ceste più piccole che venivano rapidamente recapitate ai diversi banconi. “Arrivata a destinazione, la lettera viene messa nel primo cassetto là in alto e si può incominciare subito a prelevare i materiali per la fabbricazione nei cassetti sottostanti. Non serve neanche aprirla, tanto i Korrigans non sanno leggere. I pezzi più ingombranti si trovano invece nel retro.”

“E come fano a distribuirle o a sapere cosa costruire?”

“A fiuto. Utilizzano l’olfatto, in pratica. E’ sorprendente la versatilità di questi piccoli Elfi, specie nell’esecuzione dei lavori manuali. E comunque la magia dà una mano. Finito il regalo i cassetti sono vuoti e si può ricominciare. Il lavoro finito viene impacchettato e depositato temporaneamente là in fondo, in attesa della logistica.”

“La logistica?”

“Certo, la consegna è fondamentale, non credi? Ma torniamo fuori, ormai saranno arrivati. Guarda: stanno già portando su un po’ di scatole.”

I tre risalirono rapidamente le scale, seguendo la staffetta di elfi che si passava, non senza fatica, una sfilza sterminata di pacchi e pacchetti da portare all’aperto.

“MA COS’È’ TUTTO QUESTO BACCANO?” domandò Madenn a neanche metà della rampa, gridando per farsi sentire.

“LA LOGISTICA!” rispose Jacques.

Sbucata nella radura la ragazza sentì il cuore balzarle in gola. Tutto intorno a lei centinaia, migliaia di grandi uccelli bianchi volavano a rotta di collo in e da tutte le direzioni. Salivano in impennata. Scendevano in picchiata, viravano da una parte e si buttavano nell’altra. Era lo spettacolo più caotico e fragoroso a cui le fosse mai capitato di assistere in tutta la sua vita, metteva quasi paura. Vincendo il timore di essere trafitta da un becco o artigliata da una zampa, si fermò nel bel mezzo dello spiazzo ad osservare. Gli uccelli non erano totalmente bianchi. La luna li illuminava abbastanza da poter distinguere almeno il giallo della testa ed il nero della punta delle grandi ali. Le zampe sembravano palmate, come quelle delle oche o delle anatre ma non ne era sicura. E, a guardar bene, il loro movimento non era poi del tutto casuale, non completamente. Al termine dello svolazzamento, infatti, ciascun uccello finiva per allinearsi lungo un unico, invisibile, sentiero che lo portava dritto dritto sulla verticale della pila di pacchetti che i Korrigans continuavano instancabilmente ad allineare. Lì si lanciava a picco verso il cumulo e quando ormai sembrava inevitabilmente destinato a schiantarsi riusciva invece ad arrestarsi, restando immobile per qualche istante a mezz’aria. Secondo regole note soltanto a lui, prelevava un collo, prendeva quota e si allontanava, svanendo rapidamente nella notte. A volte più di un uccello cooperava nel trasportare un pacco particolarmente voluminoso. A volte più uccelli, ciascuno con il suo carico, prendevano la stessa direzione, formando dei curiosi trenini che alla ragazza sembravano quasi famigliari.

“E’ FANTASTICO! MA COSA SONO?”

“SULE BASSANE!” rispose Jacques. “ASPETTA UN ATTIMO!” Fece un paio di strani gesti nell’aria, pronunciò due parole e improvvisamente tutto il clamore dello stormo scese ad un volume più accettabile.

“Ecco, così va meglio. Sono Sule Bassane. Vengono dalle Sept-Iles, da l’Île Rouzic se ricordo bene. Passano l’inverno vagabondando per tutto l’Oceano, ma per questa notte sono tornate qui, ad aiutarci.”

“Ma come… No, non mi dire, ci arrivo da sola: è una specie di magia.”

“Proprio così. Quel che conta è che domattina, quando si sveglierà, ogni bambino in ogni casa della Bretagna troverà il suo regalo di Natale sotto l’albero, o nella calza, o davanti al camino, o dovunque si aspetti di trovarselo. Questo è l’impegno che ha preso il Grande Merlino, un impegno d’amore nei confronti dei figli del suo popolo per l’unica notte in cui la magia che lo tiene imprigionato non può funzionare. Perché nessun malvagio sortilegio può operare nelle notte di Natale”

“Sei due volte in errore apprendista” intervenne a questo punto Merlino. “Perché quello che mi tiene prigioniero non è un sortilegio, ma un incanto. Mille volte avrei potuto romperlo, e mille volte di fatto l’ho rotto, per poi tornare di mia volontà alla mia prigione. Perché mai oserei abbattere le mura che la mia amata ha alzato per trattenermi, fino al giorno in cui non sarà lei stessa a volerlo. E poi quello che stiamo facendo qui ora, tutti noi, è ben più che adempiere ad un impegno. E’ una speranza che portiamo al mondo in nome dell’Onnipotente, è un patto che rinnoviamo ad ogni Natale. Ma piuttosto: dipendeva da te anche un altro e ben più gravoso compito per questa Notte Santa. Spero che tu non te ne sia dimenticato.”

Il ragazzo frugò nella borsa, estraendone un barilotto che questa non avrebbe potuto contenere (non ci crederete, ma è una specie di magia).

“No, maestro. Eccolo qua, il miglior Sidro di tutta l’Armorica.”

“Bene, ragazzi. Visto che qui nessuno sembra avere veramente bisogno di noi, perché non scendiamo in laboratorio a festeggiare? A che serve essere il direttore della fabbrica, se poi si deve anche lavorare?”

“Certo, scendiamo. E Buon Natale, maestro. Buon natale anche a te Madenn, Buon Natale ai Korrigans, Buon Natale alle Sule. Buon Natale a tutti.”

 

E Buon Natale anche a Voi, lettori, anzi: Nedeleg Laouen Holl, in Bretone.

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Testo di Fabrizio Burlone

Illustrazione di Eugenio Bausola

“Nedeleg Laouen Holl” by Fabrizio Burlone is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License. Permissions beyond the scope of this license may be requested at http://traccevisibili.blogspot.com/.

 

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