BRACCO, di Mario Campanini

Bracco

Illustrazione di Eugenio Bausola

 

Lo chiamavano Bracco. Non era un mistero per nessuno l’origine di quel nomignolo: lui era un bracconiere, da sempre. Avrà avuto sì e no 6 anni, stando ai suoi ricordi, quando per la prima volta aveva ucciso una donnola che faceva razzia di uova nel pollaio di fianco all’orto. Aveva avuto la costanza di restare sveglio quasi tutta la notte per sorprenderla e finirla a bastonate e il giorno dopo l’aveva appesa per il collo al paletto del cancelletto dell’orto, una sorta di dichiarazione di guerra rivolta a tutti gli esseri viventi del mondo.

Con Bracco non si scherzava.

Niente gli dava più soddisfazione della cattura e dell’uccisione di un animale. Non lo faceva per soldi o per vanagloria, nessuna delle sue vittime era destinata al macabro commercio degli animali impagliati e solo qualcuna finiva nel suo piatto, cucinata, peraltro, grossolanamente. Anche a tavola, Bracco, non era un raffinato.

Bisogna riconoscere che Bracco, nel coltivare la sua insana passione, aveva delle doti fuori dal comune. Era astuto, perseverante, coraggioso e conosceva alla perfezione i comportamenti e le abitudini delle sue vittime. Era un osservatore attento e nessun dettaglio sfuggiva ai suoi sensi, che fosse una traccia o un richiamo sommesso.

Col tempo aveva affinato anche la conoscenza delle armi da fuoco, al punto da riuscire a modificarle per poterle meglio adattare ai suoi scopi. Silenziatori, sistemi di puntamento, ricalibratura, munizionamento facevano ormai parte del suo bagaglio tecnico. Tutta questa “tecnologia” non lo aveva però privato del piacere di utilizzare ancora i sistemi di cattura tradizionali, che lui conosceva benissimo.

Lacci, tagliole, archetti, vischio, trappole a scatto, esche, veleno. Tutto era abilmente sfruttato, tutto era lecito se finalizzato al raggiungimento dell’unico, divorante, obiettivo della sua vita: catturare e uccidere gli animali.

In paese tutti sapevano chi era Bracco e cosa faceva, anche le guardie. Ma nessuno era mai riuscito a sorprenderlo sul fatto. Certo, capitava a volte di incontrarlo in giro per i boschi ma non portava mai armi addosso, almeno non in maniera visibile. Le guardie avevano organizzato diversi appostamenti per beccarlo con le mani nel sacco, tutti andati a vuoto. Una volta avevano anche perquisito la sua casa e l’officina dove svolgeva la sua attività di riparazione di macchine agricole. Niente.

L’attività di meccanico non lo aveva di certo reso ricco, tuttavia gli consentiva di vivere, anche perché svolgeva il suo lavoro con coscienza e i suoi prezzi erano più che onesti. Questo gli garantiva la fiducia della sua clientela, che gli perdonava quei giorni di improvvisa assenza annunciati dal solito cartello con su scritto “torno subito” appeso al cancello dell’officina.

La gente dell’osteria lo vedeva di rado e quando capitava non si riusciva a cavargli che qualche parola di saluto e qualche commento su un lavoro da finire o da incominciare. Dopodiché si sedeva in un angolo, ordinava la solita birra e sprofondava nei propri pensieri.

Qualcuno aveva azzardato, una volta, che Bracco fosse così perché nella sua famiglia non aveva conosciuto altro che botte e umiliazioni. Gli astanti avevano annuito in silenzio e poi il discorso era scivolato su argomenti più appassionanti.

Per Bracco non c’erano preferenze: qualsiasi essere vivente meritava la sua attenzione. Trota, merlo o cervo non faceva differenza, l’importante era riuscire a beccarlo. Era una sorta di passione al contrario, una specie di amore-odio, che veniva soddisfatta solo nel momento del possesso totale dell’altro. E quale maggiore sensazione di possesso poteva esserci dell’istante in cui era lui, Bracco!, a decidere della vita o della morte dell’animale? Era un’esaltazione, un delirio che appagava in maniera sublime la sua fragile autostima, seppur confinato in un lasso di tempo troppo breve.

Raramente Bracco falliva nei suoi propositi distruttivi, ma quando era accaduto aveva sfogato la sua frustrazione contro tutto quello che gli capitava a tiro. In quelle occasioni un rancore folle e violento si impossessava di lui e lo spingeva a gesti inconsulti.

Negli ultimi giorni aveva dedicato le sue attenzioni ad una preda rara e ambita, della quale aveva prima intuito la presenza, nel vecchio bosco del Patriarca, e poi individuato, con pazienza, i posatoi. La presenza delle grandi borre sul terreno gli aveva dato la conferma di essere al cospetto di un grande gufo reale.

Come sempre, aveva studiato tutto con cura: il luogo per appostarsi, il periodo più favorevole, l’arma più appropriata, il percorso di avvicinamento. Ma la sera stabilita per la sfida, quando aveva puntato il fucile sulla preda, ben puntellato contro il tronco di una quercia, al momento di premere il grilletto aveva avvertito una sorta di tremito ed aveva mancato il bersaglio.

Il gufo si era dileguato e difficilmente si sarebbe rivisto da quelle parti.

Bracco era stato assalito da un’ira così selvaggia che aveva spaccato il fucile contro il tronco dell’albero. Due sere più tardi era tornato sul luogo della sconfitta e aveva scortecciato, per vendetta, due metri buoni del tronco della quercia a cui si era appoggiato nell’appostamento, condannandola a morire.

Nella banale e gretta logica che condiziona il ragionamento della maggior parte degli esseri umani un albero vale l’altro e soltanto una eventuale valutazione economica di una essenza arborea pone delle discriminanti tra le piante che compongono una foresta.

Bracco non aveva considerato nemmeno quella, accecato com’era dalla delusione del fallimento che, attraverso un’analisi appena un po’ più lucida, avrebbe dovuto estendere all’intera sua esistenza e non soltanto all’errore di mira di quella maledetta notte.

Nella logica della natura, però, ogni essere vivente ha un ruolo ed un fine ben preciso, anche se agli occhi degli umani può apparire incomprensibile e misterioso.

La quercia scortecciata era un albero caposaldo del bosco del Patriarca, un anello della catena che consente agli alberi di comunicare tra di loro, svolgendo il ruolo di ponte radio nella rete di passaggio delle informazioni tra gli alberi e, da questi, al regno animale.

Già, perché anche gli alberi comunicano. E’ un sistema molto diverso dal nostro, attuato attraverso canali chimici, elettrici e chissà cos’altro. Ma comunicano! E la quercia morente aveva lanciato forte e chiaro il suo allarme al resto della foresta, dando indicazioni precise sul tipo di pericolo e, soprattutto, sul responsabile della minaccia.

La foresta non aveva tardato a reagire e aveva inviato un pressante appello verso il cielo, chiamando in aiuto le nuvole.

Tutti sanno quanto sia importante il ruolo delle nuvole nella distribuzione delle piogge e nella regolazione del clima, ma tutti sanno anche come sia distruttivo il loro passaggio quando si coalizzano col vento, formando le tempeste.

La foresta invocava aiuto e le nuvole accorrevano.

Per due giorni gli alberi le avevano alimentate aumentando al massimo la pompa idrica che dal sottosuolo, attraverso le radici, trasferisce l’acqua alle chiome. Da qui, col meccanismo dell’evapotraspirazione, una quantità enorme di acqua sotto forma di vapore era salita al cielo e le nuvole si erano ricaricate. Il terzo giorno, verso sera, il vento aveva cominciato a spirare con forza, compattando le nubi e provocando grandi addensamenti di cariche elettriche sulla loro superficie.

Bracco, dapprincipio, non si era accorto di niente. Si era rifugiato nello stanzino sotterraneo che aveva costruito personalmente e in gran segreto per custodirvi le armi e tutta l’attrezzatura che usava nelle sue incursioni di morte. La botola di accesso allo stanzino, occultata nella legnaia, era rimasta aperta perché aveva intenzione di trasferire una parte delle armi in un’altra buca, scavata recentemente, che riteneva più sicura.

Il rombo dell’uragano giungeva attutito nella camera sotto terra, ma Bracco si era reso conto che qualcosa di grave stava succedendo nel momento in cui aveva udito lo schianto della tettoia della legnaia. Immediatamente un torrente d’acqua si era riversato dalla botola nello stanzino sotterraneo. Il livello dell’acqua saliva vertiginosamente e Bracco era riuscito per un pelo ad arrampicarsi sulla scaletta vincendo la cascata d’acqua che cadeva dall’alto.

Una volta fuori, il vento lo aveva investito facendolo cadere. Per la prima volta nella sua vita, Bracco provava la paura.

Il rumore era assordante, le gocce di pioggia colpivano come proiettili e nell’aria volava di tutto.

Con la forza della disperazione tentava di spingersi verso l’officina, con l’intenzione di barricarsi dentro, ma era continuamente colpito dagli oggetti che vorticavano nell’aria. Istintivamente si copriva il capo con le mani finché qualcosa di pesante lo aveva atterrato e schiacciato al suolo. Non riusciva più a muoversi e la fitta lancinante che aveva provato al momento dell’impatto si era trasformata di colpo in una sorta di insensibilità alle gambe.

Prima di perdere i sensi aveva voltato la testa per vedere cosa lo bloccava a terra. Era un grosso tronco scortecciato.

Bracco era stato trovato il mattino successivo dalle squadre di soccorso. Era semisepolto dai rami, dalle foglie e dal fango, ma era ancora vivo, anche se privo di conoscenza.

Era stato ricoverato nell’ospedale del capoluogo e operato d’urgenza e nei mesi successivi aveva dovuto sopportare un estenuante calvario fatto di immobilità a letto, di sedia a rotelle e di umiliante dipendenza dagli altri per ogni minima necessità.

Dal suo letto di dolore pensava spesso ai boschi che erano stati il teatro delle sue scorribande ed agli animali, che erano stati la sua ossessione. Ma, cosa strana, ripensava a loro senza bramosia di possesso. Gli mancavano e basta.

Il giorno in cui era stato riaccompagnato a casa da un’assistente sociale era ancora malfermo sulle gambe e camminava aiutandosi con le stampelle. Gli avevano detto che con l’aiuto di costanti esercizi di riabilitazione avrebbe recuperato un po’ di più la funzionalità degli arti inferiori. Ma non avrebbe più camminato come prima.

Durante i primi giorni passati a casa aveva fatto un po’ di pulizie con l’aiuto di qualche volontario del paese. In quel periodo gli capitava spesso di soffermarsi ad osservare gli uccelli che erano tornati a frequentare numerosi il cortile e l’orto, ormai incolto, dietro casa. In particolare l’aveva colpito un merlo che, ogni volta che lui appariva, si posava in un punto ben visibile e lo guardava con occhio di sfida.

Alla fine della prima settimana di convalescenza, attraversando il cortile con le stampelle, aveva notato il solito merlo posato su quel che restava della tettoia della legnaia. Una lampadina si era accesa nel suo cervello.

Lentamente si era avvicinato al cumulo di macerie della legnaia. Al di sotto intravedeva la botola aperta dello stanzino sotterraneo; l’interno era buio, ma si intuiva che era pieno di fango e di detriti.

Bracco era rimasto qualche minuto in pensiero, poi era rientrato in casa.

Il giorno dopo, con l’aiuto di un conoscente, aveva rimosso i resti della tettoia liberando la botola. Su questa, una volta richiusa, aveva fatto gettare del cemento a presa rapida sigillandone ogni fessura.

Per qualche minuto era rimasto lì, in piedi, ad osservare quella sorta di sepolcro. Dentro ci aveva sepolto una parte della sua vita ed ora era pronto a ricominciarne un’altra. Più matura, più serena.

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